Mobbing

Il mobbing è un fenomeno complesso; si può analizzarlo da differenti punti di vista: legale, psicologico, sociale. Inoltre esiste anche un punto di vista aziendale/organizzativo che di solito è in aperto conflitto con quello soggettivo della persona che si sente “presa di mira”. Lo psicologo si concentra di solito sugli aspetti individuali e percettivi, cercando però di non perdere di vista il constesto più ampio. Le persone che si sentono oggetto di mobbing (si potrebbe dire “che si sentono mobbizzate”) di solito rilevano come nella loro vita lavorativa a un certo punto – e spesso non è facile definire quando tutto ha avuto inizio – ci sia stato un cambiamento. Alcune volte la situazione è esplicita: c’è un demansionamento formale o un feedback negativo scritto. La maggior parte delle volte però quello che cambia è più sfumato, si tratta di un clima, di tanti piccoli tasselli che insieme vanno  a modificare il quadro generale. Alcuni compiti che prima venivano svolti passano ad altri, vengono organizzate riunioni di cui si viene a sapere solo all’ultimo o persino dopo che si sono già svolte, può anche capitare dopo una breve assenza di scoprire che la propria scrivania è stata spostata, magari in un luogo isolato! Nell’insieme si ha la sensazione di essere messi da parte, di non far più parte della squadra. Oppure al contrario, il carico di lavoro aumenta in modo significativo e ingestibile, ci sono osservazioni e critiche buttate lì in momenti informali e a cui è difficile rispondere; a volte le critiche riguardano aspetti lavorativi (puntualità all’arrivo, orari di uscita troppo poco flessibili ecc) altre volte si spingono persino sul piano personale (sul modo di vestire, sul modo di relazionarsi o troppo espansivo o troppo chiuso). Le osservazioni si fanno di solito più sfumate quanto più personali, ma sono quelle che naturalmente fanno più male a chi le riceve. Come reagisce la persona che si sente “mobbizzata”? All’inizio tenta di minimizzare, poi comincia a ribellarsi e si trova indecisa tra scappare, trovando un nuovo lavoro (ma ci vuole tempo) o vendicarsi (e qui sotto la spinta dell’emotività i primi pensieri sono poco condisibili socialmente; solo in un secondo tempo si fanno strada progetti più razionali come ricorrere in giudizio). Tutto questo crea una grande tensione; i sintomi possono essere svariati: insonnia, crisi di pianto immotivate, confusione e smarrimento. A questo punto spesso accade che, se il contratto lo consente, la persona in crisi si metta in malattia, anche per lunghi periodi. Oppure può decidere di contattare un legale. Oppure può fare entrambe le cose. A volte infine decide di contattare uno psicologo. Gli interventi che uno psicologo può fare in queste situazioni sono di solito di due tipi. Un intervento classico è quello di offrire sostegno alla persona che sta vivendo questo forte disagio. Il sostegno è necessario anche per riuscire a liberarsi del rancore e delle “scorie” che questa esperienza lascia, per non portarle nella nuova avventura lavorativa, qualora questa dovesse presentarsi. E’ utile cercare un contatto con il legale incaricato dalla persona in difficoltà, se c’è, per poter fare un lavoro di “rete”. Un altro modo in cui lo psicologo può essere utile, solo però quando la persona ha la possibilità di chiedere un periodo di “malattia”  è quello di scrivere una prima relazione da presentare al medico di base. Questa relazione non pretende di certificare la condizione di mobbing, né tenta di stabilire un nesso causale fra lo stato di disagio e le condizioni lavorative, tanto meno siamo nel campo del “danno biologico” da risarcire; questo potrà essere richiesto più avanti, nel caso si arrivi davvero a un contenzioso legale. La prima relazione si limita a certificare lo stato di disadattamento con conseguenze ansiose o depressive e serve soprattutto al medico di base, che può così confermare lo stato di inabilità –temporanea- al lavoro. In questo modo si concede alla persona almeno un po’ di respiro per recuperare le forze, riorganizzarsi e reagire, nel modo che crederà opportuno.

Scegliere un quadro che avesse a che fare col mobbing è stato davvero difficilissimo; pertanto questa è per ora una scelta provvisoria. Si tratta di una tela di Edward Hopper, datata 1962 e intitolata “Ufficio a new York”. Non si può dire che l’atmosfera espressa dal dipinto evochi il mobbing; ma almeno la scena è ambientata in un ufficio. Nelle opere di Hopper la luce gioca un ruolo fondamentale; tra l’altro l’autore ebbe modo di conoscere dal vivo durante un viaggio in Francia lo studio sulla luce fatto dagli impressionisti. In questo caso abbiamo a che fare più con la luce naturale, che viene dall’esterno che con quella artificiale dell’ufficio, le cui lampade emettono solo un debole chiarore, tanto che l’interno sfuma nell’oscurità. La luce mette in evidenza il marciapiede antistante alla vetrina, una parete dell’ufficio, ma soprattutto inquadra la donna bionda in primo piano. Nonostante la scena sia ambientata in orario di lavoro e in una grande città le strade sono deserte, il che conferisce alla situazione un senso di straniamento e di solitudine. L’unico personaggio che vediamo chiaramente è appunto la donna bionda, presumibilmente alla reception, che tiene in mano una lettera e la osserva con aria corrucciata. Si intravedono poi altre figure, una donna di schiena  vestita di nero che si allontana e un ultimo personaggio sullo sfondo, senza volto, forse un uomo, da quel pochissimo che si può intuire più che vedere dell’abito indossato. Pertanto formalmente la donna non è sola, ma tutto ce la fa percepire come tale; si tratta di una donna piuttosto giovane e sicuramente attraente, abbigliata con un abito blu che mette in evidenza le braccia e le spalle. Dalla scelta del vestito potremmo dedurre o meglio immaginare che siamo in una stagione calda, forse estiva, il che spiegherebbe anche la mancanza di persone in città. Che sia così oppure no, l’espressione della donna non è rilassata come potrebbe essere quella di chi sta per andare in vacanza o almeno lavora a ritmo meno intenso; eppure non si può dire che sia sovraccarica di lavoro: sul suo tavolo vediamo solo un telefono in un angolo e nessuna pila di carte; c’è solo quella lettera che lei sta fissando con espressione seccata. Sembrerebbe più una diva del cinema che un’impiegata; in effetti è come se anche lei si chiedesse cosa ci fa lì: una donna di classe messa alla reception a leggere la posta! La sensazione è quella di una persona in un luogo che non è il suo. Se volessimo forzare la mano e accostare queste impressioni alle tematiche del mobbing potremmo dire che una caratteristica di questa “patologia” lavorativa è appunto il venire isolati dagli altri e costretti a lavorare da soli; andando oltre potremmo ricordare un’altra caratteristica cioè l’essere demansionati o ridotti a svolgere un lavoro che non ci compete, non ci interessa e spesso ci svilisce. Probabilmente l’opera di Hopper allude a un significato più profondo, a una solitudine e un’incomunicabilità esistenziale e pertanto inevitabile; anche il senso di estraneità della protagonista rimanda a domande più ampie: qui sono fuori luogo, ma esiste un luogo a cui posso realmente appartenere? un luogo simile esiste per qualcuno di noi? Oppure siamo tutti spaesati e soli per definizione? Ciononostante il senso di smarrimento, isolamento e umiliazione sono anche caratteristiche del mobbing; certo si tratta di caratteristiche transitorie, frutto delle circostanze non di questioni esistenziali, ma questo almeno in parte può giustificare l’accostamento fra il tema del mobbing e il quadro.

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